E così, sono stato a Panamá. Ho ritrovato vecchi amici, ne ho conosciuti di nuovi, ma soprattutto ho avuto la gioia di operare con loro, di spiegare le mie tecniche, di dimostrarle e di insegnarle, e di aiutare qualche paziente a risolvere i suoi problemi di parete. In quattro giorni ho eseguito una ventina di interventi, la metà per via laparoscopica minimamente invasiva; ho avuto la fortuna di accedere a sale operatorie ultramoderne e superaccessoriate, e di usare protesi di altissima qualità, come la Herniamesh Relimesh o la nuovissima Hybridmesh, una rete che nel giro di due anni si riassorbe per il 75%, lasciando infine nel paziente pochissimo materiale estraneo. Una rete fantastica per le riparazioni di parete, ad esempio, negli atleti o negli adolescenti. Niente a che vedere con le ormai scarsissime risorse del Sistema Sanitario Nazionale italiano, destinate, oltretutto, ad assottigliarsi ulteriormente nei prossimi anni. Ho operato pazienti con ernie inguinali, ernie crurali, ernie epigastriche, laparoceli successivi, soprattutto, ad interventi di ginecologia od a tagli cesarei. Interventi in alcuni casi molto complessi, ma sempre portati a termine con ottimi risultati. Insomma, è stato davvero esaltante, un pieno successo. Ed ecco la fotocronaca di quei giorni!
Lo staff di sala operatoria. Io sono quello in seconda fila, col berrettino colorato: prima le bellezze locali!
Caso piuttosto complesso: grande ernia addominale su incisione di Pfannestiel, il taglio normalmente usato dai ginecologi per le isterectomie ed i parti cesarei. Qui sto disegnando la forma della protesi sull’addome della paziente, protesi che verrà collocata per via laparoscopica
Con il mio grande amico Miguel Aguirre. Sto ritagliando la rete, una Relimesh, da posizionare per via mininvasiva laparoscopica
Sempre con Miguel, mentre disegnamo la forma della rete Relimesh per un altro paziente
Spesso, quando parliamo con i nostri pazienti, dimentichiamo che il linguaggio medico è una specie di linguaggio “iniziatico”, poco comprensibile a chi non sia dell’ambiente. Per cui, il paziente sa di avere qualcosa ma non sempre sa cosa.
Questo è soprattutto vero per le patologie considerate “minori” (cosa che poi non sono): se la persona che ho davanti ha un tumore, spendo parecchio tempo per spiegarle bene la sua situazione; ma se ha un’ernia inguinale, o delle emorroidi, do per scontato che già sappia di che si tratti, e non perdo troppo tempo in spiegazioni. Ma si tratta davvero di tempo perso? Quante persone sanno realmente cosa è un’ernia – e, di conseguenza, sono in grado di capire se e quanto sia pericolosa?
Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza.
Che cosa è un’ernia
“Per ernia si intende la fuoriuscita di un viscere dalla cavità che normalmente lo contiene, attraverso un orifizio, un canale anatomico o comunque una soluzione di continuo”.
Questa è la definizione classica dell’ernia, di qualsiasi ernia, da quella inguinale all’ernia del disco; ma non è di comprensione così immediata se non si hanno almeno delle nozioni base di anatomia.
E allora proviamo a ragionare per similitudine. Se siete della mia generazione, quella dei ragazzini che quando bucavano lo pneumatico della bicicletta non lo cambiavano ma rattoppavano la camera d’aria, vi verrà facile.
Pensate appunto a uno pneumatico; e immaginate che il copertone si laceri, e che dalla lacerazione venga fuori la camera d’aria, come nella fotografia qui sotto: ecco che cosa è un’ernia: la lacerazione rappresenta “l’orifizio, il canale anatomico o comunque la soluzione di continuo” della definizione di prima; quello che noi chirurghi chiamiamo “il difetto erniario”.
La camera d’aria che viene fuori dalla lacerazione è il “sacco erniario”: nel caso dell’ernia inguinale, è il peritoneo che rivestiva all’interno la parete inguinale “lacerata” e che ora fa capolino attraverso la lacerazione stessa.
Se poi il sacco contiene un “viscere” che si è spinto attraverso la “lacerazione” – e che nel caso di un’ernia addominale (le ernie addominali sono, a seconda del punto della parete addominale in cui si manifestano, l’ernia inguinale, la crurale, la ombelicale, la epigastrica, l’ernia di Spigelio…) è costituito in genere da grasso (l’omento) o da un pezzo di intestino – questi è il “contenuto erniario”. Facile, no?
Ora che (spero) è chiaro che cosa è un’ernia, veniamo all’altra domanda: perchè l’ernia può essere pericolosa e dev’essere operata? Bene, nelle ernie addominali – di cui le più frequenti sono le inguino-crurali e le ombelicali – ed in particolare, paradossalmente, in quelle in cui il difetto è piccolo, è possibile, come già detto, che il contenuto erniario sia un’ansa intestinale. A volte, succede che l’ansa fuoriuscita non si riesca a “ridurre”, ossia a ricollocare nella sua posizione naturale dentro l’addome. Si parla in questo caso di ernia incarcerata. L’ansa incarcerata, a causa della compressione che subisce, si imbibisce di liquidi e si “gonfia”, e ciò può causare una compressione delle arterie e delle vene che la irrorano. Questa è l’ernia strangolata, condizione pericolosissima per la vita perchè ad altissimo rischio di necrosi (ovvero di morte) dell’ansa intestinale e di sua perforazione (come nel caso della foto a lato).
Ecco perchè tutte le ernie devono essere sottoposte all’attenzione di un chirurgo esperto in chirurgia della parete addominale, l’unico specialista che possa determinare se operare, quando e con che tecnica.
Non ho dati statistici precisi ed aggiornati, ma ad occhio e croce direi che la tecnica più usata in Italia per la chirurgia dell’ernia inguinale è la tecnica di Trabucco.
Ermanno Trabucco, Chirurgo napoletano trasferitosi a New York agli inizi della sua carriera, è stato una delle colonne portanti della chirurgia della parete addominale nel XX secolo; e la sua tecnica, messa a punto negli anni ’80, rappresenta una delle pietre miliari nella storia della riparazione dell’ernia inguinale.
Il principio su cui si basa è semplice e – come tutte le cose semplici – geniale: se per riparare l’ernia bisogna usare una rete, e se tu metti questa rete in uno spazio chiuso, virtuale, allora è impossibile che essa si muova: quindi è inutile mettere dei punti per fissarla – il che risolve almeno alcuni dei problemi relativi alla famigerata “inguinodinia post-ernioplastica“, termine terribile con cui si indica il dolore inguinale postoperatorio che, non tanto raramente, rimane nei pazienti. In effetti, questo dolore è dovuto, almeno in parte, al fenomeno del “nerve entrapment“: a volte, qualcuno dei rametti nervosi sensitivi, spesso quasi invisibili, che si trovano nella regione inguinale, viene “intrappolato” dai punti che si appongono per fissare la rete; questo provoca la comparsa di dolore, di intensità e durata variabile ma non di rado cronico e lancinante.
Trabucco chiamò questo spazio “inguinal box”, lo descrisse accuratamente nei suoi lavori e dimostrò la validità della sua idea con i risultati della sua attività clinica quotidiana.
E, in effetti, la tecnica di Trabucco è semplice, standardizzata, facilmente riproducibile e facile da insegnare. E’, di fatto, la classica tecnica chirurgica “ideale”, che non ammette discussioni, nè interpretazioni, nè errori. E’ quasi una professione di fede (fede scientifica, of course).
Moltissimi chirurghi italiani sostengono di usare la tecnica di Trabucco nei loro interventi. Ma… sarà davvero così?
In effetti, se ci parli, qualcuno ti dice “Mah… io un punto sul tubercolo lo metto… sai, così, per sicurezza…” – “Mah… io il cordone lo lascio sotto la fascia, mi sembra più naturale…”. Non voglio entrare in dettagli tecnici, noiosi per i più, però… bello, bellissimo, tipico di molta chirurgia italiana: facciamo le cose perchè “ci sembra”, “per sicurezza”, non perchè vi sia il minimo fondamento scientifico.
E, SOPRATTUTTO, NON E’ LA TECNICA DI TRABUCCO. Chiamatela “la tecnica del Sig. Rossi”, gente, e lasciate riposare in pace i Grandi Chirurghi.